P. Valeriano Cobbe, saveriano

“Ieri sono andato fuori nei villaggi a distribuire le palme. Ho fatto una trentina di miglia attraverso i campi. Sanno le preghiere, si sono fatti anche la chiesetta, ma non hanno ancora ricevuto il battesimo. Non ho mai visto in vita mia una miseria così squallida. Nei bambini e nei vecchi si contavano le ossa. Eppure questa gente non mi ha neppure chiesto se davo loro aiuto, ma solo quando riceveranno il battesimo. Sembra una cosa incredibile per questo Paese, ma la fede fa i miracoli e forse questa gente capisce il valore della sofferenza. In una situazione così disperata si deve dire che anche materialmente il loro futuro è nelle mani del Signore” (p. Valeriano Cobbe) P. Valeriano Cobbe

Camisano 14 gennaio 1932
Bangladesh 14 ottobre 1974

Chissà perché i bambini dei poveri danno sempre tanto fastidio, aveva scritto un giorno p. Valeriano, figlio di una famiglia tanto numerosa quanto povera. Forse se lo sentiva che il destino gli riservava qualche amara sorpresa. Sarà così: la sera del 14 ottobre 1974, mentre è diretto verso casa, alcuni sicari lo assassinano con un colpo al cuore, per poi scomparire nel buio.

Scriverà un suo confratello: ‘p. Cobbe ha voluto giocare d’azzardo con la storia e la società locale in nome dei valori umani e cristiani, ma la storia e la società hanno punito lui, bandiera degli oppressi levata troppo in alto’. Questa, in sintesi, è la storia della sua vita: uno strenuo tentativo di riscattare dalla miseria i contadini del Pakistan Orientale (futuro Bangladesh), vincendo la rassegnazione, il fatalismo e la disperazione di gente abituata da sempre a subire.

Ci riuscirà, anche se con fatica, tant’è che una volta esausto confessa: Mi hanno portato al limite dell’esaurimento. Ma continua. Vuole affratellare, attraverso il lavoro, cristiani, musulmani e indù, fermamente convinto che tutti gli uomini sono figli di un’unica famiglia umana.

Si adopera così per organizzare gli abitanti del villaggio in una cooperativa agricola e per riscattare i terreni che le famiglie davano in pegno agli usurai. Nelle sue lettere dalla missione di Shimulia ci sono sempre notizie di cose fatte e da fare: scava pozzi, costruisce una scuola, delle capanne per le famiglie povere, la casa per le suore, il centro di cucito e il consultorio. È fermamente intenzionato ad insegnare ai suoi poveri che non si vive di regali, ma di lavoro. E lui per primo dà l’esempio, anche se la sua salute lo costringe a dei riposi forzati. I sacrifici ci sono, ma la fatica più grande è quella di vedere la gente morire di fame, perché non si è in grado di dare loro il pezzo di pane di cui hanno bisogno.

Non riesce ad abituarsi p. Valeriano a quella miseria che spegne il sorriso sulla bocca della sua gente.

Oltre ai soliti problemi, poi, vi si aggiungono quelli della guerra civile che durerà per tutto il 1971, seminando nuove ondate di odio e dolore. A forza di piangere, mi sono preso un’infezione agli occhi, scriverà p. Valeriano poco dopo la morte di p. Mario Veronesi, il confratello dalla barba ormai grigia con cui aveva condiviso quattro anni di missione.

Adesso che p. Mario non c’è più è solo. Ma non molla: nonostante le rappresaglie continue e le notizie di villaggi vicini distrutti, continua ad essere vicino alla fatica della sua gente. Eppure di rischi ne corre: ‘Credo che padre Cobbe si sia trovato in pericolo decine di volte, senza immaginarselo’, dirà un testimone oculare.

La sua attività non è gradita a chi vive sfruttando la miseria dei ‘fuori casta’. P. Valeriano si fa dei nemici e ne diventa sempre più consapevole. Al punto che un giorno, preoccupato, confida ad un amico: Mi vogliono morto. Oramai però è troppo tardi: è già nel mirino dei suoi avversari.

Se per caso morissi, seppellitemi accanto a padre Mario, aveva fatto sapere poche ore prima di essere ucciso. Lo hanno ascoltato.