P. Egidio Ferracin, comboniano

“Comunque vada, siamo nelle mani del Signore. La nostra gente ha capito che siamo con i più poveri e provati. Anche noi missionari stiamo assaggiando il sapore della povertà e questo ci aiuta ad essere più autenticie credibili”p. Egidio Ferracin

Malo 13 aprile 1937
Uganda 4 agosto 1987

È giovane, ma travagliato, il cammino della Chiesa in Uganda, quel Paese dell’Africa equatoriale, dove padre Egidio Ferracin, Cin Cin – affettuosamente – per gli amici, viene inviato nell’agosto del 1965, dopo un anno trascorso a Londra a familiarizzare con l’inglese.

L’Africa è proprio bella, scriverà di lì a poco ai suoi che a Malo attendono, impazienti, sue notizie. Chissà, forse timorosi di vederselo tornare indietro in modo imprevisto ed inaspettato, un’altra volta. Come già era successo tempo addietro, all’epoca degli studi nel seminario di Vicenza, quando Egidio era stato rimandato a casa perché la famiglia non aveva pagato entro i termini stabiliti la retta del figlio. Lui ci torna sì a casa, ma stremato e affamato, dopo un viaggio a piedi di 27 km, percorso seguendo le rotaie del treno.

Aveva visto giusto il nuovo superiore di p. Egidio, da poco reduce dall’Africa: il ragazzo ha la stoffa del missionario. Poco importa se non brilla negli studi: quel giovane aspirante al sacerdozio è ‘da ammettersi al rinnovamento dei voti. Sarà uno che aiuterà i confratelli in crisi, specialmente in missione’. Il tempo gli darà ragione. La situazione in Uganda non è facile, ma p. Egidio, neo-professo comboniano, ce la mette proprio tutta per dare qualcosa di suo ad una terra che è a corto di coraggio, di gioia, di speranza.

Troppi eventi avevano segnato la storia di quel Paese, giunto all’indipendenza (1962) in modo del tutto impreparato e abbruttito dal regime di Idi Amin, il generale mussulmano che nel 1971 si era impossessato del potere con l’appoggio indiretto dell’Inghilterra e di Israele e che aveva coinvolto ben presto la Chiesa nelle sue ‘purghe’.

Le ritorsioni non si faranno attendere per chi con coraggio denuncerà le violazioni dei diritti umani e protesterà contro i metodi brutali (violazioni di domicilio, arresti arbitrari, scomparsa di numerosi civili) della polizia investigativa. Anche lui, p. Egidio, è nel mirino. Lo sa bene. È per questo che il 4 gennaio 1986, minacciato di morte, deve lasciare in fretta e furia la missione di Alìto per rifugiarsi in quella di Aduku.

È una continua fuga la sua, al pari di quella di molti altri missionari, costretti a mettersi in salvo per evitare le frequenti incursioni di soldati e ribelli a caccia di viveri, benzina e soldi.

Ho avuto tanta paura!, confesserà un giorno, dopo essere scampato ad alcuni predatori che con un pistola puntata alla nuca lo avevano costretto a fare il giro di tutte le stanze della missione e a caricare la refurtiva in macchina. La parte dell’eroe non mi si addice!

E lui che non vuole recitarla quella parte, va incontro alla sua morte a testa alta. È diretto a Kwibale, per far visita agli ammalati, quella mattina del 4 agosto 1987, quando con la sua motoretta s’imbatte nei suoi carnefici, nel tratto di foresta che costeggia il lago Kioga. Solo dopo una settimana i suoi confratelli ne ritroveranno il corpo, adagiato sul fianco, con le mani legate ad una pianta.

Il Signore non ci abbandona, aveva scritto tempo addietro quando ormai la situazione si faceva ogni giorno sempre più difficile. Comunque vada, siamo nelle mani solide del Signore. Certo, comunque vada: perché Dio infonde coraggio ai Suoi profeti. Soprattutto a quelli che non si sentono, pur essendolo, degli eroi.