“Ciò che provo al mattino salendo l’altare non te lo posso dire, non riesco a descriverlo. Prega perché non mi abitui mai a celebrare la santa Messa, non mi abitui mai ad essere prete. Mai mi sono convinto, come in questi giorni, che solo per l’infinita bontà e misericordia di Dio oggi sono quello che sono”p. Giovanni Didonè
Cusinati di Rosà 18/3/1830
Congo – Zaire – 28/11/1964
Vedi, papà, so di recarti un grande dispiacere, tuttavia ho deciso: devo farmi missionario. Anche se tu ti opponessi, non faresti che ritardare la mia decisione di qualche mese: la voce gli trema, ma il cuore è saldo. È un caldo pomeriggio di luglio. Giovanni ha 20 anni e non può attendere oltre. Deve seguire la sua strada. Costi quel che costi. La diocesi di Padova (dove il padre, che pure non ha preclusioni per la scelta del figlio di farsi prete, lo ha mandato a studiare) è divenuta troppo stretta per il suo cuore, ormai aperto alla missione e ai suoi orizzonti.
A 29 anni Giovanni realizza finalmente il suo sogno. Il 3 dicembre 1959 parte per il Congo Zaire. Sotto la protezione di quel Francesco, patrono dell’Istituto Saveriano, che tutti i suoi figli ricordano e festeggiano il 3 dicembre di ogni anno.
Uno dei tanti problemi che deve affrontare, nella diocesi di Uvira (provincia congolese del Kivu), dove è stato assegnato, è quasi irrisolvibile: si tratta infatti di far superare i desideri di vendetta tra clan indigeni e, nel contempo, di far cadere i giudizi negativi dei congolesi nei confronti dei bianchi.
La sfida è impegnativa, ma lui non si perde d’animo. Noi non siamo fatti per arrenderci. La cosa importante è non fermarci: così scrive al fratello Severino, studente in seminario. Neppure la vastità delle missioni – Uvira, Baraka, Fizi, Kiliba – in cui opera riesce a fiaccare la generosità del suo animo e la vigoria del suo fisico. Dalle montagne alla pianura le sue parole risuonano ovunque in quella terra, ricca di diamanti, ma abbruttita dalla miseria e dalle violenze degli ex colonizzatori.
Sulla sua pelle, p. Giovanni sente quanto sia radicata l’insofferenza di quella gente verso i bianchi. L’astio c’è, è reale. Tanto quanto le numerose ingiustizie e umiliazioni subite da quel popolo nel passato.
È per questo che ora lui è lì: per seminare fiducia, per ipotecare un futuro migliore, più umano. Per tutti: cattolici e protestanti, animisti e musulmani.
Lo farà fino agli ultimi istinti di vita, seguendo le sequenze di un copione che sembra già visto, anche quando racconta fatti nuovi. Al vespro di un pomeriggio come tanti altri, p. Giovanni si trova accanto alla statua della Vergine che lui stesso aveva fatto mettere all’ingresso della parrocchia, vicino alla chiesa che aveva costruito negli ultimi di vita nella missione di Fizi.
Proprio lì, sotto lo sguardo di quella Madre cui giovanissimo – undicenne – si era consacrato, viene raggiunto da un proiettile che lo colpisce mortalmente alla testa. A sparare è la mano di un ribelle ubriaco, assetato di vendetta, lo stesso che poco prima, nella missione di Baraka, ha fatto fuoco su un altro saveriano vicentino, fr. Vittorio Faccin.
È la sera del 28 novembre 1964 quando p. Giovanni si congeda, all’età di 34 anni, dal continente africano.
Ora che lui non c’è più, il suo ricordo e il suo esempio non cessano di interrogare tutti coloro che, ad ogni latitudine, fanno proprio il rischio della verità. Consapevoli che il suo destino è il ‘martirio’. Anche quello del sangue.