P. Silvio Dal Maso, comboniano

“Era molto umile e rispettoso. Chi cercava padre Dal Maso, se non aveva impegni ufficiali, lo trovava in chiesa con il rosario in mano. Era molto amato, specialmente dai ragazzi”sr Francesca Aquilino

Pugnello – Arzignano 3 novembre 1912
Uganda 2 maggio 1979

È da poco spuntata l’alba quando sr. Paola e Teresa, l’incaricata dei catecumeni, arrivano di corsa, tutte trafelate, alla casa dei padri comboniani nella missione di Pacwach, in Uganda.

A ragione le due donne avevano presagito il peggio, dopo aver constatato che quel giorno (3 maggio 1979) la porta della chiesa era ancora insolitamente chiusa alle sette del mattino. La scena che si presenta ai loro occhi è agghiacciante: il cadavere di p. Silvio Dal Maso, attraversato da un foro di pallottola dietro l’orecchio, giace inerme accanto a quello di p. Antonio Fiorante. Sbigottite e sgomente, tentano di ricostruire le ultime ore di vita dei due missionari. Diventa ora più chiaro quel che è successo il giorno innanzi, quando i soldati del dittatore Amin si sono allontanati dalla missione, dopo averla razziata, facendo intendere in swahili che sarebbero tornati. Per uccidere, questa volta.

Se lo sentiva mamma Stefania che sarebbe finita così: ‘Andrai lontano, figlio, in mezzo a tanti pericoli. Forse ti uccideranno…’, aveva detto un giorno con il cuore in gola a quel figlio, orfano di padre ancor prima della nascita. Ci aveva provato pure il superiore dei Comboniani a dissuadere Silvio dal farsi missionario. Niente da fare: il suo destino è quello di partire. Senza indugi.

È sacerdote da soli sei mesi, quando poco più che ventisettenne s’imbarca a Napoli, alla volta dell’Etiopia, nelle vesti di cappellano militare e assistente degli italiani civili al seguito dell’esercito. Non che gli piaccia molto quello strano connubio tra croce e spada, ma è là, fra quella gente, che si sente inviato. Del resto del bene lo si può fare ovunque, anche in mezzo ai prigionieri, come scrive dal campo di concentramento dove viene rinchiuso dopo la sconfitta delle truppe italiane nel 1942/’43.

“Tra i Denka, tutti ricordano le fatiche di questo missionario tra le paludi e le zanzare: a cavallo o a piedi, instancabile e sorridente”p. Bono

Di lì a qualche anno, con la fine della seconda guerra mondiale, è nel gruppo dei missionari costretti a lasciare il Paese a seguito della soppressione delle colonie italiane.

Dovrà attendere il 1947 per far ritorno in Africa, in quella zona del Sudan, abitata dai Denka, dove lui stesso chiede di essere assegnato. Questa nuova avventura missionaria non è meno faticosa della precedente: le difficoltà non mancano, infatti, non da ultima quella di doversi spostare a cavallo per raggiungere i villaggi sperduti in mezzo a quel groviglio di fiumi e paludi.

La fama del missionario instancabile e sorridente si diffonde ben presto tra quella gente che beneficerà della sua presenza per ben 16 anni. P. Silvio vorrebbe restare ancora, ma non può, come è scritto a chiare lettere sul foglio con cui viene rispedito in Italia: ‘È cessato il motivo per cui sei venuto in Sudan!’. Non c’è nulla da sperare: il regime di Khartum, costituito per lo più da arabi mussulmani, è stanco di testimoni scomodi che possano denunciare le barbarie perpetrate a danno dei cattolici nel sud del Sudan.

“Era un vero uomo di Dio” don Lino Coffele

Dopo un paio d’anni di permanenza nella casa missionaria di Thiene, una nostalgia prepotente dell’Africa lo riporta tra quella gente. Anche nella missione di Angal, in Uganda, p. Silvio continuerà a servire, confortare e sorreggere, animato dal desiderio di far suoi i bisogni e i desideri del popolo africano.

Ha 66 anni quando la morte, inaspettata e violenta, pone fine bruscamente alla sua vita. Anche senza alcun preavviso, p. Silvio è pronto ad affrontare coraggiosamente quell’ultima prova. Con la corona tra le dita, da buon missionario.

ALLEGATI:

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