P. Giovanni Botton, saveriano

“È inutile che vi dica di essere contenti: siete stati voi che mi avete insegnato che non siamo nati per questa terra, ma per il paradiso; e per il paradiso merita bene che si faccia qualche sacrificio. E da voi ho anche imparato come ci si deve sacrificare: e qualche scena della vostra vita non potrò mai dimenticarla. Mi sarete un modello così alto, che io, apostolo, non so se potrò raggiungerlo. Anche questa mia partenza sarà un nuovo sacrificio per voi; ma voi già mi avete dato tutto al Signore”p. Giovanni Botton

Carmignano sul Brenta 9 maggio 1908
Cina 30 aprile 1944

C’è anche p. Uccelli quel giorno, a Venezia, a salutare i sette religiosi che stanno salpando per

l’estremo oriente, a bordo del ‘Conte Verde’. Con commozione il rettore dell’Istituto Saveriano di Vicenza guarda allontanarsi quell’imbarcazione, su cui viaggia anche p. Giovanni Botton.

Quel giovane saveriano ormai ventiseienne diceva sul serio anni addietro quando un giorno come altri aveva bussato alla porta del suo convento deciso a farsi religioso. Non scherzava.

Anche ora è convinto di ciò che fa. La Cina lo attende e lui intrepido sale su quella nave con tanto entusiasmo: non può sapere che il suo biglietto è di sola andata. Ai suoi, che non ci sono, lascia scritto: È inutile che vi dica di essere contenti: siete stati voi che mi avete insegnato che non siamo nati per questa terra, ma per il paradiso; e per il paradiso merita bene che si faccia qualche sacrificio…

Non saranno i sacrifici a mancare a Zhengzhou, la provincia cinese dove p. Giovanni (Gino per i suoi) viene assegnato. Spostarsi infatti è un problema in quella zona: C’è da tribolare…! Che viaggi, che letti, che cibi, che sporcizia, scriverà in Italia, alludendo ai suoi viaggi. Per non parlare degli odori: Oh, le puzze della Cina! Ma in paradiso avremo i profumi…

Gli spostamenti non sono l’unica sua preoccupazione: gli ci vuole circa un anno per familiarizzare con i segni ideografici. Ma alla fine ne viene a capo e comincia a farsi capire da quella gente parlando la loro lingua, il mandarino. Non passa molto tempo che i suoi superiori lo destinano a Juzhou, il distretto più disperso del Vicariato di Zhengzhou. Per quell’ambiente impervio ci vuole qualcuno che abbia una costituzione robusta. E tanto entusiasmo. Padre Giovanni è la persona ideale.

Le difficoltà incalzano: deve guardarsi dai briganti e lottare contro la fame che a partire dagli ultimi mesi del 1936 costringe molte famiglie a lunghi ed estenuanti esodi. Ad aggravare la miseria poi si aggiunge anche la guerra: nel luglio del 1937, infatti, a seguito di una sparatoria fra truppe di confine, i giapponesi invadono la Cina e marciano su Pechino. Di lì a poco, con l’inizio della seconda guerra mondiale, la situazione precipita irrimediabilmente verso il peggio, inasprendo l’inarrestabile susseguirsi di orrori e di violenze.

Anche per i padri missionari italiani, sospettati di comunicazioni radio con il nemico, l’avvenire si fa incerto. Con la sentenza del 6 maggio 1942 le autorità militari cinesi fanno sapere che di lì ad un mese gli italiani devono raggiungere il campo di concentramento di Neixiang.

Sto sempre benissimo, scriverà da quell’inferno p. Giovanni per non impensierire troppo i suoi. Eppure non gli resta molto tempo da vivere.

Qualche mese dopo la sua liberazione, infatti, l’orto della missione di Zhengzhou diventa il bersaglio degli aerei giapponesi. Sembra ormai passato il peggio, ma sul far della sera, dopo una terribile giornata di fuoco, due soldati giapponesi si accaniscono con ferocia sul corpo inerme di p. Giovanni.

La sua agonia si consuma lentamente tra il pianto degli amici e l’imbarazzo di un ufficiale giapponese lì presente che volendo scusare l’insensato, disumano gesto dei suoi soldati, laconico commenta: ‘Sono gli errori della guerra’.