Sono partita per la missione in Colombia con mille punti interrogativi e ora, dopo essere tornata in Italia, quelle domande ancora non hanno trovato risposte. La missione, infatti, non dà risposte, la missione mette in discussione, crea dubbi e una giusta quantità di confusione: “Sto facendo la cosa giusta? Ma giusta in che senso? E giusta per chi?”.
La mia esperienza in terra colombiana è stata un’esperienza a tutto tondo, scandita dai ritmi frenetici ma allo stesso tempo lenti di una città che sembra essersi fermata decenni fa ma che con la sua fitta rete di autobus e taxi è sempre in movimento. Tra bancherelle di arepas, empanadas e carne grigliata, le strade di “Lucero Medio”, acciottolate o spesso non asfaltate, accolgono los hombres de la calle e bambini a cavalcioni seduti sui muretti. “Lucero Medio”, il barrio dove ho abitato, situato nel quartiere di Ciudad Bolivar nella periferia sud di Bogotà, è una realtà tosta, segnata da un passato anche di violenza, che persiste ancora oggi in una povertà onnipresente. Il peso della storia si sente vivo mentre guardo le baraccopoli e le umili casupole con le loro costellazioni di murales dai colori vivi.
Dalla finestra della casa di Ilse, Emperatriz, Monica – las Hermanas de la Divina Voluntad che hanno aperto le porte a me, a Vero e a Nico (i miei due fantastici compagni di viaggio) – posso godere di una vista impagabile sulla città di Bogotà, che nel buio della notte, con le sue luci soffuse, sembra voler placare la frenesia della sua vita quotidiana. Ma questa atmosfera di apparente tranquillità viene interrotta all’almanecer, quando tutto si risveglia. Le mattine qui sono imprevedibili: niente di programmato ma si trova sempre qualcosa da fare tra spesa, visite culturali e incontri inaspettati. I pomeriggi, invece, sono sempre impegnati con la Fundación BellaFlor, che da vent’anni accoglie ragazzi tra i 7 e i 18 anni, scandendo i loro pomeriggi tra lezioni di musica, teatro, pittura e qualche attività e gioco in lingua inglese. In quest’organizzazione i bambini e i ragazzi del quartiere di Ciudad Bolivar si sentono a casa, e grazie alle varie proposte didattiche e ludiche possono trovare il loro talento e scoprire che le loro vite possono migliorare.
Collaborando con la Fundación BellaFlor, la mia attenzione va subito agli occhi di questi bambini e ragazzi. Sono occhi apparentemente spenti, pieni di una carica emotiva abituata a sfociare in una rabbia e in una violenza che dovrebbero essere sconosciute alla loro età. Pian piano i bambini e i ragazzi hanno imparato a conoscerci non solo come los profe che insegnavano loro palabras en inglés ma anche e soprattutto come amici con i quali potevano parlare e sfogarsi. Così, tra un ballo, una smorfia e un sorriso, ho potuto intravedere che sotto questo apparentemente impenetrabile strato di rabbia, si nascondevano un’umanità e una voglia di vivere disarmanti.
Ho visto bambini aprirci le porte delle loro case e farci entrare nel loro piccolo e umile mondo.
Ho visto bambini stanchi perché costretti a svegliarsi all’alba per raggiungere la scuola dopo interminabili viaggi in autobus.
Ho visto questi stessi bambini stanchi avere però la forza di giocare e di correre per tutto il pomeriggio.
Ho visto bambini soli, con genitori assenti, in prigione, scappati o costretti a turni di lavoro alienanti.
Ho visto questi stessi bambini soli, accompagnati però da nonni o da professori, andare al parco o visitare il museo cittadino.
Ho visto bambini cresciuti troppo in fretta, in quell’università della strada fatta di spintoni, parole forti e tentazioni pericolose.
Ho visto questi stessi bambini emozionarsi per il calore di un abbraccio.
Ho visto questi stessi bambini sorridere davanti ad un occhiolino.
Ho visto questi stessi bambini divertirsi con un pallone, un pennello ed un tamburo.Ho visto questi stessi bambini entrare in punta di piedi, ma fare un rumore grandissimo.
Ho visto questi stessi bambini voler tornare ad essere bambini, per costruirsi un futuro migliore.
Questo viaggio non è stato facile, ma ho avuto la fortuna di conoscere persone fantastiche, persone dall’animo nobile e con un cuore ricco di un’umanità straordinaria.
Questo viaggio mi ha insegnato che qualsiasi persona che incrociamo nel nostro cammino non è mai lì per caso.
Mi ha insegnato a correre il rischio di lasciarmi sorprendere da questi incontri.
Mi ha insegnato a percorrere sentieri contorti per allargare orizzonti e superare barriere. Mi ha insegnato a sbagliare e a chiedere scusa.
Mi ha insegnato a trovare la parola giusta in mezzo a tante sbagliate.
Mi ha insegnato a concedermi abbracci che sanno di vita piena.
Mi ha insegnato a rinnovare ogni giorno con entusiasmo il mio sguardo verso l’umanità.
Mi ha insegnato a tornare bambina per vedere ciò che da adulta ho smesso di vedere.
E ora, a pochi giorni dopo il rientro in Italia, sono qui a ripensare a quella che per me è stata l’esperienza più autentica e genuina della mia vita e non posso far altro che essere grata per tutto quello che ho vissuto. Mi aspettavo l’inaspettato e così è stato.
E ora che si fa? La missione finisce qui?
No, la missione non può fermarsi. La missione continua. La missione deve continuare in una quotidianità più consapevole, “per poter costruire una tavola dove ci sia spazio un po’ per tutti!”
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