Guardare al futuro in prospettiva real-utopistica
Autore: Gisbert Greshake
Editrice: Queriniana, 2023
La Chiesa cattolica sta attraversando una fase di radicale indebolimento e di ricostruzione. Ai suoi vertici non sono pochi coloro che si propongono di “salvare il salvabile”: si aggrappano a quel che ancora regge, puntando gli occhi sul passato, con un misto di nostalgia e rassegnazione.
Greshake chiede, invece, di ricominciare da capo, attuando un rinnovamento assolutamente più profondo, radicale, sostanziale. Il teologo tedesco rivendica con fermezza una «real-utopia» ecclesiale, in cui l’agire sia orientato non a preservare il passato tramandatoci, ma a immaginare il futuro promessoci. Egli scopre e fa emergere quelle tendenze che già oggi sono proiettate sul domani, prefigurandolo, ed elabora alcune linee guida di una Chiesa a venire che sia capace di reinventarsi. È la visione di una Chiesa che, in quanto minoranza, prende di nuovo coscienza del suo mandato e della sua forma vitale, una Chiesa dei laici, una Chiesa spirituale con una mutata forma sociale.
Proposte pertinenti, coraggiose, efficaci per affrontare la crisi odierna, senza cedere al pessimismo, ma adottando sempre uno sguardo positivo.
È un libro ricco di spunti, scritto in modo scorrevole e chiaro, che non si limita a proporre un elenco di ricette pastorali, ma che cerca, «attraverso alcuni passaggi storici e sistematici, di sondare anche la possibilità e i confini che può assumere una nuova evoluzione futura» della Chiesa (pp. 11-12), valorizzando alcune positive e promettenti tendenze attuali.
Nell’introduzione (“Prolegomeni”: pp. 5-25) l’autore spiega senso e significato del concetto di real-utopia per il futuro della Chiesa. «Nel termine real-utopia il momento del reale respinge una visione puramente fittizia e priva di conseguenze, mentre il momento dell’utopico insiste su un futuro assolutamente da rinnovare, che non esiste ancora e non ha ancora un luogo (u-topia, u-topos, non luogo), ma che si prefigura comunque in contraddizioni e aporie del presente, in evoluzioni e tendenze positive, nonché in tentativi preliminari, frammenti, desideri e aspettative, sogni e fantasie» (p. 14). «Senza real-utopia si sprofonda nel passo lento e zoppicante di un imperativo orientato unicamente al passato» (p. 23).
In due densi capitoli vengono esplicitati e presi in esame i fattori che determinano l’attuale situazione di crisi che investe soprattutto le Chiese del mondo occidentale (pp. 27-106) e sono indicate le linee fondamentali – e tra di loro profondamente interconnesse – capaci di far emergere nella visione real-utopistica una forma nuova, viva e credibile di Chiesa (pp. 107-290).
Il cristianesimo di massa occidentale oggi è al tramonto
La prima cosa che salta agli occhi per quanto concerne gli attuali cambiamenti della Chiesa è il numero decisamente in calo di coloro che partecipano alla vita comunitaria (p. 27). Si è in presenza – per lo meno in Europa e, in genere, in Occidente – di un mutamento strutturale e sostanziale della forma fondamentale della Chiesa che ha il suo centro in quella che Gisbert Greshake definisce la fine della Chiesa di popolo, ma che sarebbe forse meglio definire come la fine del cristianesimo di massa, cioè la fine di quella forma di Chiesa destinata a interagire profondamente con la società fino a configurare un’indissolubile unità con essa (pp. 28 e 29).
La fine della Chiesa di popolo o del cristianesimo di massa comporta la fine anche di una serie di altri elementi ad essa strettamente collegati: la sacralizzazione del ministero ecclesiastico; il potere incontrollato della gerarchia; la carenza di consapevolezza battesimale da parte di chi si considera credente (pp. 63-64); l’appartenenza spesso non decisa dei singoli alla Chiesa; la netta distinzione e l’abissale differenza tra clero e laici; l’alto grado di istituzionalizzazione, organizzazione e regolamentazione ecclesiastica, a cui fa da contraltare una percentuale molto modesta di spazio libero concesso per l’esercizio individuale della fede» (pp. 104).
Il passaggio dal cristianesimo di massa ad una forma nuova, viva e credibile di Chiesa, al momento non è ancora completamente delineato (p. 27). In ogni caso, come già affermava in una conferenza del 1954 Karl Rahner, la Chiesa del futuro sarà una Chiesa in diaspora, cioè una Chiesa nella quale la fede sarà vissuta in modo convincente in mezzo al mondo, «senza che chiunque non condivida questa fede debba essere preso per pazzo» (pp. 61-62). O, come si esprimeva in maniera del tutto analoga nel 1970 Joseph Ratzinger, la Chiesa «oltre che perdere degli aderenti numericamente, perderà anche molti dei suoi privilegi nella società. Si presenterà in modo molto più accentuato di un tempo come la comunità della libera volontà, cui si può accedere solo per il tramite di una decisione. Come piccola comunità, solleciterà molto più fortemente l’iniziativa dei suoi singoli membri» (p. 60).
Forse i tempi che viviamo, caratterizzati dalla fine del cristianesimo di massa, possono essere accostati alla metafora biblica (Dt 8,2) di Dio intento a «ricondurre nuovamente il suo popolo nel deserto» (p. 60). «Soltanto una rivitalizzazione della fede nel senso originario e pienamente biblico può dare alla Chiesa un nuovo futuro. Il che significa, nello stesso tempo, che il centro spirituale della Chiesa deve emergere molto più fortemente e deve essere realizzato» (p. 103).
Il centro permanente della Chiesa futura: essere sacramento
Se c’è un elemento che costituisce l’essenza della Chiesa di ogni tempo e di ogni luogo, questo è indubitabilmente costituto dal suo essere mistero e sacramento, cioè segno e strumento (p. 112) del già e del non ancora del Regno di Dio.
La Chiesa, in quanto sacramento in Cristo, «è segno, vale a dire è destinata a indicare oltre sé stessa quello che costituisce il motivo e lo scopo della sua esistenza: essere testimone dell’ineffabile amore con cui Dio ama gli esseri umani e li vuole condurre alla comunione di vita con sé» (pag. 111).
La Chiesa, in quanto sacramento in Cristo, «è strumento, vale a dire non soltanto richiama, ma in essa e per mezzo di essa si realizza anche ciò di cui sin dal principio, in piccolo e nascostamente, la Chiesa è segno: la comunione tra Dio e uomo nonché quella reciproca tra gli esseri umani» (pag. 111).
La Chiesa, come comunità e in ogni suo singolo membro, sperimenta, attua, rende tangibile e testimonia l’amore di Dio e la comunione degli esseri umani ottenuta grazie a lui nella lode e nell’adorazione di Dio, nella parola e nel sacramento, nella carità e nella solidarietà e, soprattutto, nel suo modo di vivere nel mondo» (pag. 117).
Una Chiesa piccola minoranza
Dal momento che il cristianesimo ha finito di essere un cristianesimo tradizionale ed ereditario per passare ad essere «un cristianesimo di libera elezione» (pag. 120), «la Chiesa del futuro sarà una minoranza, e presumibilmente una minoranza piuttosto esigua»: situazione, questa, da considerare, secondo quanto affermava già nel 1959 Karl Rahner, «addirittura come un imperativo storico di salvezza» (pag. 119).
«La futura forma della Chiesa sarà molto simile a quella dei primi cristiani» (p. 124). Essa «ritornerà nuovamente alle semplici affermazioni di fede della sacra Scrittura e dei primi secoli, che esprimono in modo semplice quella che ancora Karl Rahner ha sintetizzato nel concetto chiave della sua teologia come auto-comunicazione di Dio […]. L’espressione della fede della Chiesa futura sarà variegata e vivace, così com’era già nel Nuovo Testamento e nei primi secoli […]. Determinante sarà il contorno chiaro della professione di fede centrale, che ruota attorno al Dio uno e trino, alla redenzione in Cristo, all’opera dello Spirito e alla comune speranza nella vita eterna» (p. 134).
«Essere minoranza non vuol dire ritirarsi nelle proprie quattro mura, ma essere sempre pronti a rendere conto della speranza che è in voi a tutti coloro che vi chiedono spiegazioni (1Pt 1,15). E questa speranza non si deve limitare alle parole ma deve essere tradotta in pratica, in un impegno concreto che faccia capire che, in ultima istanza, Dio e la fede in Lui, unitamente alla convinzione che l’essere umano sia creato a sua immagine e somiglianza, garantiscono la dignità e la libertà inviolabili della vita umana e la sua piena speranza di senso» (pp. 134-135).
Essere minoranza non significa neppure ritirarsi in un ghetto accogliente e compiaciuto, rassegnarsi o protestare nel proprio intimo (p. 144). Quello che deve essere comune a tutti coloro che credono è la fedeltà ad alcune convinzioni fondamentali, «come l’impegno in favore dei diritti umani, la giustizia, la riconciliazione, la pace, l’impegno in favore dei più umili, dei poveri e dei diseredati… il riferimento alla sacra Scrittura, soprattutto alle sue parti principali come il Discorso della montagna, il comandamento del suo amore verso Dio e il prossimo, l’inno alla carità (1Cor 13) e i molti elenchi di vizi e virtù neotestamentari, come ad esempio Gal 5,13-26» (pp. 136-37).
Una Chiesa più spirituale
La Chiesa del futuro «conoscerà una nuova fioritura perché la sua forza dominante all’interno della società non si attuerà più attraverso una molteplicità di opere (istituzionali), ma tramite l’impegno e la testimonianza di vita dei singoli fedeli. Il motto del futuro sarà: non istituzioni, ma persone!» (p. 155).
La futura Chiesa-minoranza dovrà, quindi, valutare tempestivamente quali opere abbandonare e quali invece incrementare o creare ex novo, in relazione ad una futura riduzione dei mezzi finanziari e in presenza di nuove situazioni di bisogno sociale trascurate o recepite in modo insufficiente dalla società del momento (p. 156).
La Chiesa del futuro – come scriveva Karl Rahner nel 1959 – avrà «un sempre più accentuato carattere nettamente religioso» (p. 159). «Se la fede e la Chiesa devono avere un futuro, il singolo individuo (e le comunità dei fedeli) deve fare esperienze personali di fede […]. Si tratta di concepire la fede non (soltanto) come una dottrina che viene da fuori, ma come una risposta positiva che investe, colpisce, plasma, trasforma il mio centro intimo che, in ultima analisi, mira a diventare una cosa sola con Dio» (pp. 160-161). Ne consegue che «è necessario riscoprire e tornare a trasmettere con urgenza la dimensione mistica della fede, se vale il principio di Rahner secondo il quale «il cristiano del futuro o sarà un mistico […] o non sarà più!» (pp. 162-163).
La mistica della fede «non è però in alcun modo una religiosità senza conseguenze che si rivolge solamente all’interiorità […]. Occorre una mistica dagli occhi aperti (Johan Baptist Metz), che si rivolga totalmente al mondo» (p. 163) e solleciti uomini e donne credenti ad impegnarsi, da un lato, a favore dei poveri, degli affamati, degli indigenti, dei profughi i quali «sono il luogo in cui Dio si manifesta» e nei quali «Cristo è presente in maniera eccezionale», e, dall’altro, a favore «della liberazione dalle strutture oppressive, che possono includere molti aspetti diversi tra loro: politici, sociali, economici, di politica ambientale e climatica, sessuali…» (p. 164).
«Una mistica dagli occhi aperti costituisce la vera e radicale ragione fondamentale dell’impegno cristiano nel mondo. Soltanto attraverso un fondamento mistico della fede di ogni individuo e delle comunità la Chiesa può avere un futuro» (p. 164).
«Nella misura in cui la Chiesa stessa assumerà un aspetto più spirituale, scoprirà sempre di più anche nelle comunità di fede non cristiana l’operato dello Spirito e, in questo modo, porterà sensibilmente avanti le istanze» presenti in Lumen gentium n. 16 (p. 11): tutto ciò che si trova di buono e di vero in chi conduce una vita retta è ritenuto dalla Chiesa come una preparazione ad accogliere il Vangelo e come dato da Dio che illumina ogni essere umano.
Quale presbitero a servizio di cristiani mistici dagli occhi aperti?
In una Chiesa più spirituale, il presbitero «deve concepirsi e operare, prima di tutto il resto, come guida spirituale dei fedeli a lui affidati» (p. 176). È incomprensibile che non vengano creati i presupposti per sgravare i preti «da tutti i compiti che, in generale, non derivano dal loro ministero sacramentale» (p. 177), dal momento che la loro competenza «si fonda unicamente sulla missione sacramentale garantita dal conferimento dell’ordine e resa possibile dalla speciale grazia» (p. 207).
«Una vera guida spirituale della comunità saprà soprattutto avvicinare il Vangelo alle persone affidatele: la buona novella del Regno di Dio e le sue promesse (il Discorso della montagna), ma anche i comportamenti di fede adatti al Regno celeste» (p. 178). Tra i suoi compiti assolutamente fondamentali l’autore elenca, a mo’ di esempio, i seguenti: «introdurre profondamente alla fede la comunità attraverso Parola e sacramento, diaconia ed esempio personale; accompagnare i singoli individui lungo il loro cammino di fede tramite insegnamento e predicazione; essere fermento di riconciliazione e di pace; orientare i fratelli cristiani al mutuo servizio» (p. 210). Il prete del futuro, che potrà anche essere coniugato (p. 229), «non sarà, come avviene ancora oggi, un gestore pastorale, ma soprattutto colui che è chiamato a custodire il fuoco […]. Il fuoco del messaggio della venuta del Regno, che deve essere mantenuto vivo e trasmesso» (p. 245).
Anche il modo in cui si predica deve essere spirituale: no a linguaggi astratti, poco concreti, avulsi dalla realtà, che solo raramente incontrano il mondo vitale di chi ascolta, rivelandosi utili alla sua vita quotidiana (pp. 180-181). Ma no anche a celebrazioni liturgiche scialbe, vuote e superficiali (p. 224), plasmate in senso clericale e avulse dalla vita (p. 244), caratterizzate da «gesticolazioni totalmente prive di senso» (p. 243) o da giganteschi fiumi di parole (p. 171) che impediscono di incontrare nel silenzio la Parola di Dio (p. 173).
Una Chiesa di laici e laiche
Dal momento che «nella Chiesa anche il ministro, sia esso diacono, presbitero, vescovo o papa, è e resta fondamentalmente laico, cioè appartenente al popolo di Dio, un christifideles, una persona che crede in Cristo» (p. 200), «è assolutamente intollerabile che sia soltanto il clero, e non già ogni battezzato, a svolgere un ruolo trainante e determinante nella vita della Chiesa» (p. 204). «Chiunque, grazie al battesimo, ha parte al sacerdozio di Cristo, è chiamato non soltanto a sostenere i ministri e fornire loro assistenza, ma anche a contribuire di propria (convinta) iniziativa all’edificazione della Chiesa» (p. 218). Anche senza consacrazione sacramentale il laico, idoneamente formato sotto il profilo delle competenze teologiche (p. 222), «può presiedere le più svariate forme di funzione religiosa» (p. 226).
«Nella Chiesa del futuro emergerà chiaramente che la vita ecclesiastica non dipende unicamente né principalmente dal presbitero ma dalla collaborazione di tutti i fedeli, che devono adempiere la loro personale missione nel servizio al popolo di Dio, non in un livellamento del proprio compito ma nello scambio della fede, nella condivisione dei doni e nel reciproco aiuto e sostegno» (p. 217).
I laici possono guidare e guideranno in futuro sempre di più le parrocchie, riunendo i loro fratelli cristiani nella preghiera comune, nello scambio di fede, nell’assistenza reciproca e nell’attività caritativa all’interno e all’esterno della parrocchia (p. 220). Peraltro, «la tentazione verso un neoclericalismo non risparmierà neanche le guide laiche delle comunità (p. 221).
Il futuro della Chiesa sarà anche una Chiesa delle donne, nella quale queste potranno portare e saranno invitate, anzi saranno vivamente sollecitate, a portare le loro specifiche capacità e carismi (pp. 237-238).
«Presbiteri e vescovi dovranno abbandonare lo status di casta in particolare evidenza, scendere dal piedestallo dei loro poteri e – non di rado anche – dalla loro arroganza e riconoscere la loro fallibilità» (p. 238), abbandonando – relativamente ai vescovi – stili feudalistici e simboli di rappresentazione feudalistici «che li pone in una posizione privilegiata rispetto alla vita normale dei loro contemporanei» (p. 239).
Una Chiesa in cammino
La Chiesa del futuro sarà caratterizzata da rapporti interpersonali affidabili, belli, ossia coerenti, veri e appaganti, che hanno durata e futuro perché sono puntellati dalla promessa e dal consenso di Dio (pp. 251-252).
Sarà una comunità bella, dotata di forza di attrazione, perché «non vive della propria efficacia ma riceve la sua luce dallo splendore del Risorto e la sua impronta dalla bellezza di Cristo e del suo Vangelo» (p. 252).
Sarà formata prevalentemente da comunità libere, spesso spontanee, non di rado abbastanza liquide e volatili, non più legittimate gerarchicamente dall’alto ma nate dalla libera iniziativa dal basso (p. 272).
Esprimerà un’immagine di sé estremamente vivace e variegata. Più che un’organizzazione rigida, sarà un movimento molto dinamico (p. 273).
Ad indicarla sarà l’immagine non della sede ma del cammino (p. 274), del sinodo, del camminare insieme (p. 281). La creazione di nuove strutture caratterizzate sinodalmente a tutti i livelli ne cambierà radicalmente la forma (p. 286).
«Se oggi si mettono a buon diritto in discussione le passate strutture di potere della Chiesa, il suo clericalismo e autoritarismo, la sacralizzazione dei ministri e l’interdizione dei laici e si inizia a battere una nuova direzione, allora il papato non potrà rimanere escluso da questo rinnovamento, dal momento che si concentrano e si impersonificano simbolicamente in esso i malcostumi suddetti» (p. 287).
Conclusivamente, «una nuova forma sociale della Chiesa sarà segnata dal superamento del clericalismo, dell’autoritarismo e dal centralismo, nonché dalla comune convergenza di tutte le autorità e dal loro reciproco collegamento» (p. 290).
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