Papa Francesco, in Mozambico, viene a incontrare una terra ricca di vita, di risorse, di bellezze umane e naturali. Una terra di cui ogni abitante può in tutta onestà sentirsi orgoglioso. Ma anche una terra dalle grandi sfide, alcune comuni a tutto il continente africano, altre più specifiche, legate all’unicità del Paese. Segnata dal passaggio di ben due cicloni, che, nel giro di poco più di un mese, hanno inferto delle ferite destinate a restare aperte per anni.
“Idai” ha colpito la città di Beira e il cosiddetto “corridoio di Beira” nella notte del 14 marzo scorso, mentre “Kenneth” si è abbattuto principalmente sulla provincia di Cabo Delgado il 25 aprile: si tratta dei più violenti cicloni mai arrivati in Africa Australe. Le distruzioni sono state enormi. I morti, più di mille. Proprio a causa di questi tragici fenomeni, le popolazioni colpite hanno sperato fino all’ultimo che potesse essere inserita nel percorso del viaggio papale una tappa nei loro territori, pur sapendo che ogni spostamento del Pontefice era già stato definito nel dettaglio ben prima che i due cicloni venissero a mettere in ginocchio le due grandi regioni.
Ma qual è il volto del Paese che il Papa incontrerà? Non si può non partire dal dato politico: Francesco arriva quaranta giorni prima delle elezioni. A contendersi le poltrone del governo, ancora una volta saranno i due grandi partiti di Frelimo (al governo dall’indipendenza) e Renamo (la maggiore forza di opposizione). Nella corsa alla presidenza, ci sono anche altri partiti (in particolare si segnala l’Mdm), ma difficilmente saranno questi a sparigliare le carte. Dalla firma degli accordi di pace (1992) ad oggi, i processi di riconciliazione interna al Paese hanno conosciuto sorti alterne. Ma a ogni tornata elettorale la tensione si riaccende, in un Paese in cui di fatto esistono due eserciti: quello nazionale e quello dello storico partito di opposizione. Nei suoi incontri e nei discorsi pubblici, il Papa sarà chiamato a muoversi dentro un delicato equilibrio di forze. Eppure, c’è da scommetterci, Francesco saprà sorprendere tutti, con la freschezza del Vangelo di cui è credibile testimone.
Per tornare al tema dei due cicloni, è sotto gli occhi di tutti come questi siano una delle conseguenze dei mutamenti climatici in atto. Lo scorso anno i vescovi del Mozambico avevano scritto una lettera pastorale che denunciava lo scandaloso sfruttamento della terra, la massiccia deforestazione in corso, il crescente fenomeno del land grabbing. In questo Paese, come in tutta l’Africa, la terra sta lanciando un disperato grido di dolore. Nei suoi territori, scientemente tenuti sempre fuori dalla portata di telecamere e riflettori, giorno dopo giorno, si sta consumando una tragedia ecologica che rischia di essere irreversibile e il cui costo peserà in modo drammatico proprio su quelle che già ora sono le aree più povere della Terra. Rilanciare il messaggio potente dell’esortazione apostolica Laudato si’ in questo nostro contesto ribadirebbe e darebbe eco mondiale all’accorato appello della Chiesa locale in favore di un’inversione di tendenza rispetto ai processi attualmente in atto.
Rimane, poi, più che mai aperta la questione degli scontri e degli attacchi di stampo terroristico che da almeno un anno e mezzo stanno interessando le aree più prossime ai confini con la Tanzania (nella provincia di Cabo Delgado). Si tratta di una regione ricchissima di giacimenti (gas naturale, grafite, vanadio, petrolio) che sta attirando l’interesse di investitori di tutto il mondo. Sconcerta che proprio quelle aree dove la terra mostra così tanta generosità siano oggi lo scenario degli scontri più cruenti, dove la popolazione locale è la sola vera grande vittima. Non si tratta qui di stabilire come stiano esattamente le cose e come vadano ripartite le responsabilità, ma di denunciare che ancora una volta, in Africa, a maggiore ricchezza corrisponde maggior spargimento di sangue. Le popolazioni delle province più in difficoltà hanno bisogno di sentire che qualcuno è dalla loro parte.
Un tema poco conosciuto è quello dei grandi parchi. Anche quelli che per varie ragioni erano stati per anni lasciati all’incuria, oggi stanno conoscendo una nuova primavera. In sé la cosa potrebbe sembrare solo positiva. Ma c’è un retro della medaglia. I parchi assumono valore in base a due elementi: al numero di animali e alla vastità del territorio. Per rispondere a questo secondo requisito, bisogna “in qualche modo” indurre le popolazioni che vivono nelle aree adiacenti al parco a lasciare la loro terra (che verrà quindi inglobata dal parco stesso). Nessuno protegge i diritti di contadini che da generazioni lavorano quelle terre e di esse vivono.
L’Africa, negli ultimi anni, sta svegliando un crescente e inarrestabile interesse, anche dal punto di vista turistico. E nel turismo verso l’Africa, ciò che principalmente attrae sono i parchi e le spiagge. L’Africa piace sempre di più. Ma, con molta tristezza, viene da chiedere: Si può dire altrettanto degli africani?
Un ultimo punto, di carattere più prettamente pastorale. Quando si pensa alle celebrazioni di fede in questo nostro continente, nell’immaginario collettivo emergono scene di grandi masse festanti, dove musiche, colori, danze, gioia la fanno da padroni. Non occorre essere indovini per affermare che anche in occasione della visita di Papa Francesco il cuore accogliente e festoso del nostro popolo non tradirà le attese. Raramente, però, ci si sofferma a guardare da vicino lo “stato della fede” di questi popoli.
La Chiesa in Mozambico, dopo l’ambigua epoca coloniale e il difficile periodo del “comunismo scientifico”, in questi ultimi anni sta confrontandosi con nuovi processi, non poco preoccupanti. Molti sono i cristiani dalla pratica religiosa altalenante, che non sentono il bisogno di un’esperienza di fede che ne accompagni quotidianamente e settimanalmente la vita; come nel resto del mondo numerosi sono quelli che non avvertono la contraddizione tra il dirsi cristiani e il non condurre una vita che realmente ricalchi le esigenze del Vangelo. Ma ciò che più di ogni altra cosa sta sfidando la Chiesa in questo Paese oggi è la grave emorragia delle giovani generazioni (e non solo!), che, con massima disinvoltura, abbandonano le comunità cristiane per andare a ingrossare le fila di “chiese” nate dall’oggi al domani o “importate” da altri Paesi, oppure che semplicemente si lasciano alle spalle ogni coinvolgimento di tipo religioso. In un Paese dove il 60 per cento della popolazione ha un’età inferiore ai 25 anni, di ben altro ordine dovrebbe essere la presenza dei giovani nella Chiesa! Per questo, non si può non raccogliere la grande sfida della trasmissione della fede alle giovani generazioni e non sentirla come il primo e il più urgente dei richiami del nostro tempo.
di don Maurizio Bolzon
Missionario Fidei Donum di Vicenza
L’Osservatore romano – 03 settembre 2019
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