I nostri guardaroba producono l’inferno in terra

I nostri guardaroba producono l’inferno in terra

Intervista a Matteo Ward, a cura di Maria Corbi

in “La Stampa – Specchio” del 7 aprile 2024

Immagini che sembrano rubate a un futuro distopico, minaccioso e aberrante. E invece sono già presente: abiti, scarpe, accessori, sedimentati, abbandonati, erosi dal sole, dalla pioggia, dal passare del tempo. Deserti riempiti dalla follia consumistica diventata una calamità naturale, capace di distruggere l’ambiente. Quando compriamo quel pantalone, quella gonna, quella cinta, non pensiamo mai a tutto questo, storditi dall’effimero piacere dell’acquisto. Un tema che Matteo Ward, fondatore di Wrad, studio di consulenza per lo sviluppo sostenibile in ambito tessile, cofondatore di Fashion Revolution Italia, ha trattato insieme a Sky e a Will Media producendo la docuserie, JUNK –  Armadi pieni, che racconta gli effetti del fast fashion.

Matteo, ma allora la moda sostenibile, i tessuti sostenibili, il riciclo di cui sentiamo tanto parlare, sono una bugia?
«Il 70 per cento circa delle fibre usate per i vestiti sono fibre plastiche, derivano dai combustibili
fossili, sono materiali come la plastica. Poliestere primo in classifica. E il riciclo da vestito a vestito
è molto difficile. Questo è uno degli ambiti di ricerca su cui si sta cercando di investire di più, di
fatto però esistono poche filiere del recupero a livello internazionale e non sono sufficienti a
garantire lo smaltimento della quantità enorme di abiti che viene prodotta ogni anno».

Quanti?
«150 miliardi di vestiti prodotti ogni anno, 24 miliardi di paia di sneakers, quindi 48 miliardi di
scarpe. Per i vestiti solo l’uno per cento viene effettivamente riciclato, il resto, o per limiti
tecnologici, o per mancanza di infrastrutture, di supply chain, tecnologie adeguate, finisce in
discariche, in inceneritori o semplicemente vengono buttati in quelle terre che sono diventate la
spazzatura del mondo».

Quali i paesi più coinvolti e danneggiati?
«Il Bangladesh, per la produzione. Il Cile, il Ghana l’India sono invece le discariche della Moda. In
Ghana vanno 15 milioni di vestiti di scarto a settimana».

E dove li mettono?
«Ho visto l’inferno, non hai più terra, hai gente che vive sopra una stratificazione di scarpe e di
vestiti che si sono accumulati insieme ad escrementi e rifiuti organici. Montagne di indumenti
putrefatti che emettono gas tossici».

Soluzione?
«Produrre di meno e consumare di meno. È il famoso elefante nella stanza, un problema che, per
quanto palese, viene ignorato o non preso nella giusta considerazione. Il primo passo sarebbe quello
di investire nella giustizia sociale, dare alle persone uno stipendio dignitoso».

E questo come impatta sulla sostenibilità ambientale?
«Ti rispondo con un esempio. Ero in Bangladesh e camminavo su un sentiero insieme a uno
scienziato locale, alla mia sinistra c’erano fabbriche tessili, anche molto belle, alla mia destra delle
risaie completamente sommerse da una melma nera e strati di scarti di vestiti. E si coltivava sugli
scarti della produzione di vestiti, tossici. Ho chiesto al mio interlocutore come mai non ci fossero
dei filtri per evitare che tutte le schifezze finissero nei campi. E mi è stato risposto che i filtri li
avevano ma non potevano accenderli perché i brand occidentali vogliono pagare poco per le
magliette e per i jeans».
E il mondo sta a guardare.
«Ci si muove troppo lentamente, a livello europeo si sta pensando di non ammettere nel mercato
comune gli articoli realizzati in condizioni avverse ai diritti fondamentali dell’uomo. Ma occorre
accelerare il cambiamento. Bisogna incentivare un modello di business diverso. Occorre tornare a
un profitto etico».

La politica è succube degli interessi della Finanza?
«Punto sul buon senso dei politici. Oggi c’è un dilemma e si deve risolvere. L’industria della moda
(dimentichiamoci per un attimo del ruolo culturale), ruba risorse essenziali per produrre cose non
essenziali. E quindi occorre interrogarsi sulle priorità quando c’è scarsità di risorse. I primi segnali
di una reazione vengono dalla Francia, dove stanno approvando una serie di normative per tassare il
fast fashion e anche per indebolire la loro capacità di comunicazione, costringendo le aziende a
riutilizzare e riparare gli abiti».

Se si toglie il fast fashion, rimane la moda di lusso, dai prezzi inaccessibili per i più. Si
vestiranno con capi “nuovi” solo i ricchi?
«Occorre ridistribuire la ricchezza, le aziende devono rispondere ai bisogni della società e non della
Finanza. Bisogna creare profitto ma soprattutto valore economico alla società permettendo alle
persone di soddisfare i loro bisogni. Oggi c’è necessità di un cambiamento paradigmatico del nostro
modo di produrre e anche di distribuzione della ricchezza. Per questo noi la chiamiamo
rivoluzione».

 

Guarda il Trailer: JUNK – Armadi pieni >>

 

Condividi sui social: