Flusso umano

Recensione di Paola Casella
venerdì 1 settembre 2017

Tratto da: www.mymovies.it

Una fiumana di gente – oltre 65 milioni di individui – si muove in massa attraverso la terra e il mare, un esodo collettivo di proporzioni bibliche paragonabile (nella memoria recente) solo alla diaspora avvenuta dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, che allontana dalle loro radici e culture di origine intere popolazioni in fuga da conflitti, carestie, calamità naturali, povertà e persecuzioni. Questo racconta Human Flow (“flusso umano”, appunto) attraverso la testimonianza diretta di Ai Weiwei, l’artista cinese attivista per i diritti umani e ambasciatore di Amnesty International, che applica la propria sensibilità pittorica ai grandi scenari del presente. Dal lato contenutistico, quel che colpisce è – infatti – la magnitudo del fenomeno, descritta sia in termini numerici che attraverso inquadrature gigantesche, spesso filmate dall’alto, in cui i campi profughi e le colonne di migranti appaiono in tutta la loro immensità, ed allo stesso tempo in tutta la loro dimensione entomologica.

Anche dal punto di vista artistico quelle inquadrature sono la parte più riuscita di un documentario che, per impatto visivo, è paragonabile a certe fotografie di Sebastiao Salgado che raccontavano i formicai umani creati dalla miseria e dalla guerra.

Quel che rende meno efficace Human Flow rispetto alle fotografie di Salgado è il minor rigore nel selezionare ciò che si vuole mostrare, e la minore lucidità nel focalizzare l’attenzione di chi guarda: nella sua ansia di raccontare tutti gli esodi possibili Weiwei viaggia attraverso una quarantina di campi profughi e 23 Paesi, dalla Grecia al Kenia, dall’Afghanistan alla Turchia, dalla Giordania al Libano, dalla striscia di Gaza al Bangladesh alla Sicilia, riempendo fino all’orlo il suo film (che dura due ore e venti minuti) di immagini, numeri e notizie. Se è vero che l’effetto valanga riproduce bene quello delle grandi migrazioni sui Paesi occidentali, una maggiore sintesi avrebbe potuto tradursi in una scelta registica più definita, e di maggiore incisività. L’altro particolare ingombrante è la presenza dello stesso Weiwei che compare spesso in scena, a testimoniare una partecipazione emotiva della quale siamo già ben coscienti nel momento in cui, in quanto regista, ci sottopone il suo punto di vista.

Funziona bene invece il contrasto fra i grandi quadri di cui sopra, filmati come solo un abile artista sa fare, e le testimonianze individuali, sia quelle lucide e autorevoli dei tanti esperti intervistati, che soprattutto quelle confuse e disperate dei rifugiati: fra tutte, un uomo di mezza età che ha perso nel corso del viaggio molti componenti della sua famiglia e ora si ritrova completamente disorientato in un Paese che non è il suo, e probabilmente non lo diventerà mai.

Indimenticabile (e particolarmente coraggiosa) anche la sequenza in cui un ragazzo dalla mano amputata, in quel panorama post apocalittico che è l’irachena Mosul, spiega come l’Isis abbia come prime vittime i propri concittadini. Colpisce lo sguardo diretto, senza nemmeno un battito di ciglia, di chi ha perso il proprio orizzonte, ma non (ancora) il senso della propria umana dignità. E Human Flow vanta momenti di puro cinema, come l’atterraggio di un elicottero in un campo profughi o l’attraversamento di un fiume aiutandosi con una provvidenziale fune che, vista dall’alto, è soltanto una linea colorata.

Il documentario di Weiwei testimonia il senso di smarrimento che accomuna la moltitudine di quelli che definisce i “dislocati” piuttosto che i migranti, mettendo poi l’accento sulla mancanza di (umana) accoglienza loro riservata da un mondo che, invece di creare più corridoi umanitari, alza steccati ed erige sempre nuove barriere, creando confini moltiplicatisi esponenzialmente rispetto all’epoca della caduta del muro di Berlino. Il regista sceglie di non mostrare l’impatto di questi esodi collettivi sui Paesi di arrivo per ribadire la migrazione come diritto umano ricordando, come fa una profuga nel documentario, che “nessuno affronterebbe la fatica e il trauma della fuga dalla propria terra se non nella speranza di raggiungere una qualche forma di salvezza”.

Human Flow descrive un universo di totale incertezza e di globale impermanenza nel quale conviviamo tutti sempre più faticosamente, e chiede di non abbandonare l’empatia che ci rende (ancora) umani, ricordando che i principi enunciati dalle Nazioni Unite, all’inizio di questo secolo, erano “dignità, libertà, eguaglianza e solidarietà”.

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