Disumanità della nuda vita

La guerra nel Kivu o la banalità della vita umana: la nuda vita di milioni di congolesi. Questo è tutto ciò che si può dire del genocidio congolese. Per “vita nuda” il filosofo Giorgio Agamben intendeva individui o società esposti alla morte, ovvero vite a cui è stato negato ogni diritto e dignità.

Il diritto alla vita, a una vita degna di essere vissuta, è il più precario, persino il più utopico, soprattutto in un paese in cui la guerra si è fatta uomo, e in una regione in cui le guerre sono diventate vitali, come diceva Michel Foucault.

Vitali, nel senso che le popolazioni vengono uccise, esposte alla morte per preservare la vita di altre popolazioni. In questo paradigma “uccidere per vivere”, la vita può solo essere spogliata, esposta alla promiscuità, lasciata morire.

Questo è ciò che sta accadendo in Congo negli ultimi trent’anni, e ancora di più dopo la rinascita dell’M23 nel Petit Nord e la barbarie senza nome dell’ADF nel Grand Nord a Beni e nella vicina provincia di Ituri. Il calvario dei “si salvi chi può” nelle zone di combattimento e la vita precaria nei campi profughi sono due casi emblematici delle condizioni disumane in cui vivono milioni di congolesi.

Quando villaggi densamente popolati come quelli del Nord Kivu vengono trasformati in campi di battaglia e sottoposti alle incursioni omicide dei ribelli, la vita viene eclissata e sostituita dalla sopravvivenza, i diritti – anche i più elementari – sono sospesi e la vita viene privata di ogni protezione.

Sulla via della fuga, gli uomini, e soprattutto le donne e i bambini, sono esposti a ogni tipo di disumanizzazione: fame, violenza sessuale, notti all’addiaccio, maltempo, ecc. In questo viaggio senza speranza, le persone muoiono di fame, per la fatica delle lunghe camminate e, peggio ancora, non è mai certo che la fuga permetta di scappare, perché anche durante il tragitto verso un rifugio sono spesso vittime di imboscate e bombardamenti.

È impossibile non scoppiare a piangere ascoltando i racconti del calvario che i rifugiati subiscono durante il viaggio dai loro villaggi alle zone di asilo. Non si possono ascoltare gli aneddoti dei sopravvissuti alle incursioni dell’ADF che descrivono il loro calvario senza provare disgusto.

I campi profughi o la catastrofe umanitaria: secondo l’UNHCR più di 6,9 milioni di congolesi hanno lasciato le loro case per fuggire dai combattimenti. Sui social network circolano immagini strazianti. Bambini affamati, nudi, senza casa, senza famiglia, che ricevono a malapena un pasto al giorno, se così si può chiamare.

Non sono numeri, sono bambini, uomini e donne che muoiono per malattie legate alle condizioni igieniche. Nei mormorii delle timide conversazioni dei rifugiati, è la voce silenziosa di ragazze e donne stuprate che si chiedono l’un l’altra: “Anche tu?

Nel clamore di coloro che litigano per un secchio di fagioli, viene alla parola il sentire di coloro che stanno morendo di fame mentre il raccolto marcisce nei loro campi. Nelle grida e nei gemiti di Kanyaruchinya e Rusayo, e nelle infermerie di Medici senza frontiere, sono le ragazze a cui viene detto che sono incinte a causa della violenza sessuale, le ragazze a cui vengono diagnosticate malattie sessualmente trasmissibili e AIDS.

Le ragazze minorenni vengono fatte prostituire per sopravvivere e le donne vengono violentate mentre cercano legna da ardere fuori dal campo! In questi campi, milioni di vite sono nude, abbandonate, esposte alla morte, alla morte peggiore, a tutto ciò che è disumano.

Questa è un’altra forma di genocidio, un altro modo di fare la guerra e di sterminare le popolazioni: rendere insicuri i villaggi e raccogliere le popolazioni in zone di concentramento dove vengono soffocate.  La guerra uccide milioni di persone non solo sul campo di battaglia, ma anche sulla strada della fuga e nei campi profughi.

Di fronte alla morte lenta ma sicura dei rifugiati a causa delle condizioni disumane dei campi, gli aiuti umanitari non sono sufficienti. Al di là del pane che le agenzie ONU o altre ONG forniscono, la cosa più importante da fare è tagliare l’albero alla radice: sradicare la guerra.

Ma allora, è possibile che la pace torni in Congo, che i campi profughi si svuotino, che i congolesi vivano una vita semplicemente degna di essere vissuta, quando da questa guerra non traggono profitto solo i singoli, ma anche le multinazionali e persino gli Stati? Forse un giorno…

A cura di  Louange Kahas | SettimanaNEWS – 13 marzo 2024

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