È trascorso un anno dal violento attacco di Hamas, l’organizzazione politico-militare palestinese di matrice islamista, contro alcune città e kibbutz israeliani vicini alla striscia di Gaza, a cui ha fatto seguito la dura reazione di Israele. I timori, molto diffusi al tempo, che si aprisse un nuovo e doloroso capitolo nel conflitto che da oltre settant’anni contrappone Israele e Palestina si sono rivelati fondati. A un anno di distanza non solo le operazioni militari non sono cessate, ma è difficile intravedere una strada negoziale che abbia qualche possibilità concreta di porre fine alle ostilità. Ancor più lontano sembra l’avvio di un processo che porti alla pace. Ben presente è invece lo scenario di rovine materiali e morali prodotte in questi dodici mesi di guerra da entrambe le parti: un bagaglio pesante di vite spezzate, di traumi personali e collettivi, di odio e sete di vendetta, di condizioni di vita disperate e incerte, ma anche di ideali e progetti infranti, una perdita altrettanto grave nella speranza di un futuro in cui finalmente tacciano le armi e le sirene di allarme. Soprattutto è un conflitto che fa molti prigionieri: non solo gli ostaggi israeliani o i militanti palestinesi catturati dall’esercito dello Stato ebraico, ma anche chi si lascia rinchiudere da narrazioni e prospettive di parte che rendono arduo, se non impossibile da un punto di vista intellettuale ed emotivo, cercare vie di uscita. Per chi riveste ruoli di responsabilità o è a vario titolo coinvolto direttamente nel conflitto, smascherare questi vicoli ciechi diviene un modo per resistere e ritrovare margini di azione che si ritenevano preclusi […]
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