Trent’anni dopo il genocidio del Ruanda è ancora soltanto «cento giorni di follia»
di Paolo M. Alfieri
in “Avvenire” del 6 aprile 2024
Da quel 6 aprile del ’94, in poche settimane si arrivò al culmine di decenni di cattive politiche e separazioni etniche. Tedeschi e belgi avevano preparato lo scenario, dividendo i ruandesi per tribù.
A luglio ci saranno le nuove elezioni «a senso unico».
Trent’anni. E sembra ieri. I machete che si alzavano per uccidere il vicino, le radio che incitavano all’odio, l’Occidente che si girava dall’altra parte, dopo aver contribuito a creare le premesse per il disastro. Ottocentomila morti in 100 giorni, nella stragrande maggioranza tutsi, per mano delle milizie hutu, il gruppo maggioritario del popolo ruandese. L’odio e l’orrore li abbiamo visti e raccontati in mille ricostruzioni, film, libri, testimonianze, un flusso di parole e immagini che hanno provato a descrivere come, da quel 6 aprile del ’94, in poche settimane si arrivò al culmine di decenni di cattive politiche e separazioni etniche. Gli europei – i tedeschi prima, i belgi dopo – avevano preparato lo scenario, introducendo negli anni Trenta le carte d’identità e dividendo i ruandesi per tribù: prima, in Ruanda, si consideravano tutti ruandesi.
Poi i colonizzatori favorirono la minoranza tutsi, considerandola superiore. Funzionò fino alla “rivoluzione hutu” dei primi anni Sessanta, primo soffio di quella ventata d’odio che sferzò il Ruanda fino al genocidio, a quello «schiacciare gli scarafaggi tutsi» di cui il mondo finse di accorgersi troppo tardi. La notte di quel 6 aprile l’aereo su cui viaggiava l’allora presidente ruandese Juvénal Habyarimana, un hutu, fu colpito con un missile terra-aria vicino all’aeroporto della capitale Kigali. Fu la scintilla che causò la successiva uccisione del 20% della popolazione ruandese e lo smembramento di famiglie, comunità, amicizie nel Paese dalle mille colline. Uno dei massacri più sanguinosi avvenne a Murambi: 50mila tutsi, abbandonati dalle truppe francesi, vennero massacrati in appena otto ore. Molti di loro si erano rifugiati in un centro di formazione. Sopravvissero appena in 34: oggi il memoriale che ricorda quell’eccidio è uno dei sei principali luoghi della memoria di quanto avvenne in quei giorni.
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